Da Via Rasella al terrorismo, per fondare lo Stato
di Angiolo Bandinelli
Nei loro interventi sul tema della denuncia di Via Rasella fatta da Marco Pannella al Congresso radicale dell’aprile scorso, Ernesto Galli della Loggia e Norberto Bobbio pongono la questione se sia lecito e concepibile chiedere e oggi condannare i partigiani, gli esecutori di quell’attentato, e con essi la Resistenza. Altro è prendere posizione sul terrorismo attuale – essi dicono, in buona sostanza – altro puntare il dito del giudice su coloro che avevano dinanzi a sé il problema di sconfiggere il nazismo, cioè la Violenza stessa discesa sulla Terra. Non è, evidentemente, una questione di casistica. La domanda lascia imbarazzati: cosa avreste fatto voi, essa ci intima, al posto di quei partigiani? Chi altri ha dato una risposta sufficiente, adeguata, al dramma di dover combattere una riconosciuta violenza, un despotismo, una tirannia?
Ma è questa, la vera domanda da porci? Cacciare la spada nel nodo dove si intrecciano Resistenza, Stato antifascista, Terrorismo, Sfera del Politico, eccetera, è ovviamente operazione dolorosa, soprattutto pericolosa. E non vogliamo neppure prendere posizione giusto per contestare l’esclusivismo rabbioso di chi – in questo caso il Pci – vuole a tutti i costi impedire la riesumazione dell’episodio. Il fatto è che occorre scendere assai più nel profondo, esorcizzare ben altre furie. Purtroppo, l’operazione è richiesta proprio oggi, per cercare di rispondere in qualche modo all’inquietante, terribile questione posta – all’intera società, non a questo o quello – dal dilagare del terrorismo. Il terrorismo minaccia l’intera società. Risposte che restino sul piano sociologico non appaiono più sufficienti; altre non se ne vedono: avranno allora ragione solo quelli – questo Stato, questa classe politica – che dicono che l’unico modo per batterlo è il giro di vite delle leggi speciali, del decreto Cossiga?
Poiché non siamo convinti di questa ineluttabilità, proviamo anche noi ad avviare un’indagine, un’inchiesta. Ed ecco che subito troviamo al centro, o alla origine della questione, il nocciolo duro di Via Rasella. Con sgomento, ci rendiamo conto che Via Rasella è un archetipo fondante del terrorismo moderno. Nell’episodio – per modalità, tempi, capacità espressive – ritroviamo tutti gli elementi costitutivi degli episodi più recenti e a tutti noti. Via Rasella “non” fu – come canta l’epopea resistenziale – un episodio spontaneo, “popolare” (popolare/nazionale), ma un fatto di guerra attentamente calibrato, studiato ed eseguito – soprattutto voluto – in funzione di una determinata strategia, di un obiettivo da raggiungere, in un contesto storico e cronachistico preciso, sulle cui coordinate l’episodio venne attuato.
Via Rasella fu voluta per aprire, in sostanza, la Resistenza; per motivarla e giustificarla; per fondarla. È qui che scendiamo nel cuore della regione dove abitano le Furie del mondo moderno. Perché quella scelta venne fatta in una logica che è propria dei modi di costituzione del potere; meglio, del Potere contemporaneo. In una inchiesta promossa da Fabbrica Aperta, Gianni Baget Bozzo ci avverte che sempre, a fondamento ultimo della sacralità dello Stato, anche se “Stato laico”, vi è la violenza, anzi “la violenza della guerra”. Si tratta di una violenza sacralizzata che trova i suoi monumenti in cimiteri quali Redipuglia o la Valle de Los Caidos, dove Franco ha fatto seppellire le vittime, dell’una e dell’altra parte, della guerra civile spagnola. Come non riconoscere – dice Baget Bozzo – nello stato diffuso, quasi banale, di questa sacralità laicizzata ma permanente della violenza, un nesso tra violenza e mito fondatore della collettività?
È proprio così. Aggiungendo che, più che la violenza, e di terrorismo, occorre sempre parlare di “discorso” sulla violenza, di “discorso sul terrorismo”. Con enorme sorpresa, ci accorgiamo infatti che la violenza e il terrorismo dei nostri giorni, della nostra attualità, sono soprattutto – innanzitutto – per esplicita volontà e dichiarazione (vedremo poi di chi), un “Discorso sulla violenza e il terrorismo”, con caratteri profondamente totalizzanti.
Il terrorismo è un “discorso sul terrorismo”
Da tempo, la società italiana non parla più di se stessa in termini di economia, di cultura, di politica, ma solo in termini di terrorismo, unico filo (rosso) che lega e rende leggibili fenomeni e avvenimenti diversi e lontani. È dal 1969, da Piazza Fontana, che ciò accade. E questo discorso è perfettamente funzionale, in primo luogo alla “riproduzione” del terrorismo e quindi di se stesso come Discorso. Quanti, dei morti che abbiamo tutti pagato in questi anni, sono stati il portato diretto, voluto, della necessità di far riprodurre il Discorso sul terrorismo, affinché esso sviluppasse tutte le sue potenzialità, attraverso capitoli e capitoli del suo proprio narrarsi?
Si dirà: un genere così ripetitivo finirà per stancare. Non è vero. La ripetitività non nuoce al genere narrativo. Come, nella struttura della fiaba, sotto la varietà degli scenari spettacolosi e incantevoli, nella diversità dei personaggi, con il mutare dei casi e delle peripezie, quel che ci viene trasmesso è sempre uno stesso schema, nella cui ritualità passa e viene conosciuta la struttura della società – i rapporti, le regole, i meccanismi che la reggono – così nella molteplice fenomenologia del terrorismo le varianti – certo – non mascherano la monotonia del “messaggio” che si vuole trasmettere. Ma se il narrare del terrorismo è monocorde, la ripetizione è il suo punto di forza. Ad ogni episodio che si presenti come nuovo, noi restiamo pur sempre in attesa – confessiamolo – che ritorni invece l’identico, il già saputo. La “suspence” è possibile se lo spettatore già sa che cosa accadrà. La parte che gli viene lasciata dall’accorta regia è di ritrovare in un molto complesso di piacere/angoscia, l’identico sotto il velo dei diverso. Di questo piacere/angoscia lo spettatore ringrazia il regista, di cui in quel momento si fa addirittura complice (secondo uno schema ben conosciuto, che ci limitiamo a ricordare). L’Italia di oggi ringrazia Renato Curcio, o i Curcio, e chiede sempre nuovi bis. Addirittura, eccita l’emulazione e la concorrenza tra gli aspiranti terroristi. La trama è lasciata lì in vista, fruibile e percorribile con estrema facilità.
L’Italia? Diciamo la sua classe politica, anche se oggi è sempre più difficile distinguere la sfera del politico dal resto, la società civile, eccetera (altro risultato che si desiderava ottenere, del resto). Il terrorismo, anzi il “Discorso sul terrorismo”, anzi – ancora – lo Spettacolo del terrorismo, ultima abiezione della Società dello Spettacolo, si svolge così interamente all’interno della sfera del Politico. Di più: è ciò che fonda, giustifica, regge, la sfera del Politico. Partiti, forze sociali e politiche, sindacato, eccetera, non svolgono più, in effetti, una “attività” politica, razionale, intelligibile, agibile, dialogica; sono puramente e semplicemente asserragliati nel chiuso del Palazzo – la Sfera del Politico – a rimirare lo Spettacolo del Terrorismo. Lo alimentano e lo fanno alimentare, anzi, di se stesso, perché finché esso si riprodurrà sul suo sanguinoso palcoscenico essi sanno che sopravviveranno, mentre saranno spazzati via nel momento stesso in cui quelle ombre rosse e sanguinanti non si agiteranno più e saranno dissolte.
Oggi il terrorismo, ieri la Resistenza…
Il fenomeno non è nuovissimo, del resto. La società del Politico, in Italia, ha da un pezzo la caratteristica di fondarsi e giustificarsi attraverso Discorsi ugualmente totalizzanti, analoghi a quello del/sul Terrorismo: la Resistenza, l’Antifascismo hanno svolto fino a ieri, fino al loro esaurirsi, funzioni esattamente analoghe a quella assolta oggi dal Terrorismo. E sullo sfondo appare a tratti ancora una volta, a porre i suoi sempre più beffardi interrogativi, il Fascismo, che fu anche esso, innanzitutto, un Discorso sul Fascismo. Mi pare che Ugo Ronfani colga bene questo elemento di continuità.
Una digressione, ma in tono. Secondo Adriano Sofri, un abisso di qualità separa i terroristi di ieri da quelli di oggi, li rende assai diversi: nei covi e nei casali di quelli di oggi troviamo non Marx o Lenin, ma i fumetti di Jacula. Una scoperta che dà nausea e sgomento. Ma è evidente che solo l’Archetipo ha la forza di imporsi, come fondante, con un linguaggio di qualche spessore; i ripetitori non hanno bisogno di sollevarsi a quelle altezze. A loro – scopriamo – basta la ripetitività, persino meccanica, del gesto. È una conseguenza della società di massa e dei mezzi di comunicazione di massa. Perché? Dimentichiamo per un momento di analizzare il terrorismo dalla parte del soggetto, delle sue motivazioni, dei suoi “dichiarati” obiettivi. Il terrorismo si legge e si capisce guardando invece dalla parte di chi riceve il messaggio, in quanto egli è, consapevole o meno, complice del terrorista. Il nocciolo del problema non sta infatti nel gesto in se, ma nel Discorso sul gesto; la moltiplicazione del messaggio operata nella società di massa dai mezzi di comunicazione di massa garantisce che l’effetto sarà comunque raggiunto; esattamente quello che si voleva, in portata e in intensità. Quando poi nasca la preoccupazione di un suo affievolimento e scadimento, ecco che l’intensità di tono può persino essere sostituita – e vantaggiosamente – dal numero, puramente e semplicemente. Si accelerano, si stringono, si intensificano i tempi di esecuzione, si batte sulla ripetizione, e l’effetto-qualità sarà comunque raggiunto.
Ancora una osservazione. Non vi è dubbio che il terrorismo è un fenomeno “intellettuale”. I suoi obiettivi, la scelta dei mezzi, sono sempre molto medianti, passano per operazioni complesse, niente affatto semplici. Questo rafforza la certezza che nasca all’interno della sfera del Politico, che delle mediazioni è gestore. In definitiva, se si vuole uscire dal cerchio magico, dalla maledizione, occorre sgonfiare e rendere impossibile che il ricatto venga ulteriormente esercitato. Occorre scendere a fondo, al di sotto del palcoscenico sul quale agiscono questo, ed altri Discorsi totalizzanti.
Occorre andare al cuore del Potere moderno
Torniamo, adesso, a Via Rasella. Come per il soldatino di Stendhal che per una intera giornata, insieme al suo reggimento, esegue a comando complesse manovre, avanzando e ritirandosi per campagne e per boschi, sparando sulle figure a lui sconosciute che di volta in volta gli si parano dinanzi, senza mai sapere di stare combattendo, in quelle ore, la storica battaglia di Waterloo, così il terrorista di Via Rasella può anche egli andarsene assolto – assieme alle SS altoatesine dilaniate dallo scoppio – di ogni colpa e pena. Lui non è altro che strumento su cui la storia, per quel che l’interessa, può anche stendere un velo di pietà. E così pure, che interesse abbiamo a “condannare” la Resistenza? Nessun processo allo ieri, quel che ci interessa è l’oggi e i domani, in un riconoscimento e disvelamento che impedisca da oggi poi la ripresa del Discorso del terrorismo. Certo, questo pone una alternativa. “Destabilizza” un processo di legittimità sul quale fino a ieri – questo sì – non c’era discussione. Ed ecco perché il PCI non vuole riaprire il capitolo di Via Rasella: ha paura di essere delegittimato anche esso.
Per quanto detto fin qui, è evidente che l’operazione di rimozione deve essere compiuta e il nodo tagliato. Almeno, se si vuole davvero colpire il modo di formazione del Discorso sul terrorismo, e quindi il Palazzo e le sue logiche innaturali. Sarà forse possibile farcela, a battere il terrorismo (ridotto a “fatto”, a “singolo” fatto, esso non reggerebbe un istante), se si riuscirà a sgonfiare il suo Discorso, colpendo nelle pieghe profonde dove gode di impunità e di complicità. Occorre andare al cuore della sinistra, di quel mondo “progressista” cui si deve la fondazione teorica del Potere moderno, processo di laicizzazione dei grandi rituali della Chiesa e del suo terrorismo. È l’operazione che da tempo Federico Stame viene chiedendo. Nel suo intervento, egli riporta le annotazioni di Norberto Bobbio sul ritorno di attualità di certe problematiche della tradizione giusnaturalistica cristiana: “È lecito uccidere il tiranno?”, una domanda che contiene in bella evidenza gli incunaboli del Terrorismo e del suo Discorso. Ma Stame risponde, a nostro modesto avviso, con troppa sicurezza quando dice che “quando il tiranno viola la legge naturale la violenza è giustificata, perché il “diritto” del tiranno non è più diritto, mentre è diritto la violenza dell’oppresso”. Purtroppo, questa risposta ripropone tale e quale il problema, solo lo sposta un po’ più in là. Nulla assicura che la violenza dell’oppresso non ottenga solo un ribaltamento e rovesciamento di posizioni per cui l’oppresso, divenuto oppressore, finisca con l’imporre il “suo” Spettacolo, la logica di un’altra legge assoluta e totalizzante, diversa dalla precedente solo perché cambiata di segno. Non pare insomma che basti richiamarci alla legge del Diritto naturale.
Radicali: rischio d’un nuovo irenismo?
È vero che anche i radicali, cercando di invertire la rotta di centoottanta gradi, rischiano di cadere nell’ “irenismo”, nell’utopia, insomma in un altro Discorso totalizzante? Quanto meno, questa è l’impressione di Ernesto Galli della Loggia; e – per dire fino in fondo la verità – il preambolo posto a cappello dello Statuto del partito dalla Mozione del 23° Congresso (straordinario) di Roma rafforza il sospetto. Fino ad oggi, la nonviolenza radicale è stata essenzialmente metodo e prassi. Nessuna apertura di credito e stata fatta verso una qualsiasi forma di ottimismo irenico; sempre è stata respinta l’interpretazione della nonviolenza “morale”. Fino ad oggi, i Radicali hanno cercato di definire sperimentalmente i confini possibili di una prassi capace di far deperire quel Discorso sul quale si perpetua il dominio del Palazzo, la sfera del Politico. Non c’è stata iniziativa che non abbia avuto come referente le categorie del diritto positivo, storico, al cui affermarsi come tale – vale a dire con tutta la sua relatività, convenzionalità, insufficienza, riformabilità – il radicale ha attribuito semmai la capacità di interrompere il flusso del Discorso totalizzante, ininterrotto e monologante.
È però vero che, all’affermarsi di un’ipotesi di nuovo “diritto naturale” sembrano aprirsi oggi strade non infeconde e invece pienamente agibili. Bobbio ci ha recentemente disegnato (cfr. Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino) un percorso fino ad oggi inesplorato, capace di introdurre nel diritto positivo ben più che l’aspirazione a fondare un diritto “naturale”, ma una sua storica realizzazione e conquista. L’umanità, dice Bobbio, è arrivata negli ultimi cinquanta anni a concepire ed elaborare alcuni schemi progettuali verso una Legislazione Universale possibile: sono le Carte dei Diritti approntate ai vari livelli delle istituzioni internazionali e sovranazionali, ONU in testa. A questi documenti ha già fatto riferimento, senza ipoteche astrattamente giusnaturalistiche, il Tribunale di Norimberga. Lungo questo cammino, l’aspirazione ad un Diritto Universale diventa legittima e perfettamente concepibile, ragionevole e razionale. Soprattutto, appare un obiettivo sperimentale, tutto da inventare attraverso procedimenti storici, persino empirici, certamente, fino a ieri, inconcepibili. Che siano queste, le premesse del preambolo radicale? Torniamo allora, d’urgenza, a Via Rasella.